
Intervista a Giacomo Doni
Ciao Giacomo, è un piacere ospitarti nuovamente nel mio blog. L’ultima volta fu nel 2015, con un guest post sulla fotografia di esplorazione urbana.
Raccontami di te, quando hai iniziato a fotografare? E come mai hai scelto di fotografare i manicomi abbandonati?
Ciao carissimo Francesco e grazie per questa bella possibilità di condivisione del mio lavoro. Sono molto preparato su questa domanda perché è quella che mi viene rivolta tutte le volte che racconto quello che faccio, perché sono consapevole che sia una cosa molto particolare: fotografo manicomi dal 2006 e mi sono avvicinato a questo mondo in un modo totalmente casuale, possiamo dire quasi per gioco.
Come accennavo nel guest post che scrissi sul tuo blog nel 2015, ho scoperto il mondo Urbex (da cui poi mi sono distaccato con grande piacere) attraverso il lavoro del fotografo belga Henk Van Rensbergen.
Fu per me una scoperta splendida quella del poter raccontare il mondo attraverso gli edifici abbandonati e, sull’onda di un entusiasmo incredibile, iniziai la ricerca di questi luoghi. Iniziai dalle fabbriche, ma purtroppo ne rimasi incredibilmente deluso. Ambienti freddi e scarsa emotività mi stavano facendo perdere l’entusiasmo molto rapidamente. Poi, dentro una tintoria abbandonata, vidi una stampa che è riuscita a rimanere ancorata nella mia memoria: questa stampa era su un armadietto e raffigurava una festa dei dipendenti che avevano fatto proprio dentro quella stanza, oggi, completamente vuota e silenziosa.
Vedere i loro volti, i loro corpi, il senso del tempo che passa mi diede una scossa molto forte e, silenziosamente, ha messo dentro di me un seme che soltanto alcuni mesi dopo avrei scoperto: quello di raccontare persone e realtà invisibili. Dopo alcuni luoghi visitati e con solo un’immagine in grado di farmi emozionare, mi misi alla ricerca dell’ultimo luogo: trovai su internet informazioni relative ad un vecchio manicomio a Volterra, se anche questo non fosse riuscito a farmi vivere delle emozioni, avrei messo da parte questo genere fotografico.
E quando mi trovai di fronte per la prima volta al padiglione Ferri, venni travolto da una marea di emozioni incredibile e capii che quella era la strada da seguire: quando si parla di manicomi non si parla soltanto di salute mentale, si parla di esclusione sociale, di stigma, di classismo, di evoluzione della medicina e di sviluppo industriale.
Parlare di manicomio è parlare di una fetta importante di storia che si dirama negli argomenti più disparati, alcuni dei quali, purtroppo, ancora presenti nel mondo di oggi.
Perché dici di esserti distaccato dal mondo Urbex?
Perché il mondo Urbex è fuori controllo e ha perso completamente il suo spirito iniziale. L’esplorazione urbana è nata con l’intento di scoprire e documentare posti inaccessibili ai più, mostrare dei lati nascosti delle città in cui viviamo. Con il passare del tempo, e l’espandersi del fenomeno, questi luoghi sono diventati teatro di vandalismo e molte persone, per preservare la salute di questi spazi e non farne conoscere l’ubicazione, hanno smesso di condividere il nome, le coordinate e tutti i dettagli possibili al proprio riconoscimento. Il risultato? Aver creato dei “non luoghi” che non hanno memoria. Questo è il principale motivo per cui consiglio di muoversi legalmente dentro questi spazi e cercare prima di tutto di intraprendere collaborazione con enti, associazioni o Fondazioni per tentare un eventuale recupero o valorizzazione. Non può e non deve essere solo estetica, anche perché non avrebbe assolutamente senso in quanto non aiuta la memoria del luogo e non spinge all’azione. Forse, più che #urbex (URBan + EXploration) sarebbe più idoneo coniare un nuovo hashtag #decaymour (DECAY + glaMOUR) 🙂
Penso che riportare alla memoria la storia delle persone che hanno vissuto questi luoghi, richieda tanta sensibilità. Come ti sei approcciato a questa tipologia di fotografia e come si è evoluto il tuo modo di fare fotografia?
Si è evoluto tantissimo negli anni perché sono convinto che la fotografia segua di pari passo la tua evoluzione. All’inizio ero completamente affascinato dall’architettura di questi spazi poi, man mano che vai avanti, ti accorgi che il vero patrimonio storico da salvare attraverso la fotografia è quello umano.
Spazi vuoti che rappresentano quel mondo di invisibili che il manicomio ha cercato di cancellare per sempre.
Nel corso degli anni ho inserito gradualmente elementi della permanenza dell’uomo nelle foto perché rappresentavano la vera testimonianza di quel mondo fino ad arrivare agli ultimi scatti dove la ricerca della testimonianza umana è fondamentale. Perché sono le persone l’anima dei luoghi.
Hai mai avuto paura di sbagliare?
Assolutamente si, anche perché è capitato. Era il 2006 quando, nel manicomio di Cogoleto, vidi per la prima volta il Presepe: un’opera collettiva immensa fatta da pazienti ed infermieri. Io non sapevo dell’esistenza di questa immensa opera d’arte e non avevo il cavalletto con me. Mi sono fidato, erroneamente, della mia postura e di tutte le foto fatte quella che vedi è l’unica che si è salvata.
Quella del Presepe è stata la lezione più grande che mia ha offerto la Fotografia e la Vita: perché 8 anni dopo, mi sento oggi di scrivere grazie a questa perdita, la storia del Presepe è diventata un piccolo prodotto editoriale.
Quindi posso dirti che la paura di sbagliare ti fa tenere alta la concentrazione ma la lezione che ho imparato da questa storia è che non sempre la strada che immaginiamo è quella giusta, che a volte dobbiamo fermarci per riflettere su quello che abbiamo perché, spesso, è già sufficiente per creare un racconto.
Quale impatto emotivo ha avuto su di te visitare questi luoghi? C’è un manicomio e/o una storia che ti è rimasto più impresso/a di altri?
Tutti questi luoghi hanno lasciato indubbiamente qualcosa di indelebile dentro di me, ad oggi che ne ho visitati 21. Ma se proprio devo sceglierne uno, forse direi proprio quello ligure di Cogoleto. Sarà per l’estensione, più di 1 milione di metri quadri di area, sarà per la presenza del Presepe oppure perché ci sono stato 3 giorni a fotografarlo, ma Cogoleto rappresenta per me un legame molto più che fotografico.
Hai pubblicato qualche tuo lavoro?
Guarda, paradossalmente ho sempre fatto pochissima promozione del mio lavoro. Mi sono sempre ripetuto di farla una volta completati i manicomi che mi sono rimasti da fotografare e non mi sono accorto del passare degli anni. A parte quotidiani Nazionali ed esteri, i miei scatti sono finiti anche:
- dal 2016 collaboro con lo street paper Sloveno Kralji Ulice a cadenza bimestrale.
- Alcune fotografie sono contenute nel prestigioso volume edito nel 2013 da Mondadori Electa “I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento”
- Nel 2013 pubblico per Attucci Editrice “Anime di Cartapesta” (adesso esaurito): una piccola pubblicazione sul Presepe del Manicomio di Cogoleto. Esattamente quello che ti ho raccontato poco fa.
- Nel 2018 il libro “Manicomi Torinesi” ha utilizzato delle mie fotografie per arricchire il testo.
- Quest’anno, una mia riflessione sulla fotografia e la memoria è stata pubblicata dalla rivista Cartografie Sociali edita da Mimesis.
Quali sono i riconoscimenti che hai ricevuto di cui vai più fiero?
Parlare in pubblico, dalle docenze ai convegni: vedere che il tempo passato ha regalato ai tuoi scatti un peso storico e un ruolo importante nella memoria, non ha assolutamente prezzo.
Com’è il tuo rapporto con la fotografia in relazione ai social media?
Amo la contaminazione, totalmente, e non riesco a criminalizzare i nuovi strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione. Ogni canale ha il suo pubblico e il suo linguaggio, sta a noi capire come sfruttarlo al meglio. Se guardiamo i numeri, la fotografia ha avuto negli ultimi anni una crescita spaventosa, grazie ovviamente anche alla grande diffusione degli smartphone, e credo che oggi più che mai si sia trasformata in un linguaggio universale, capace di abbattere qualsiasi distanza, sia geografica che alfabetica.
Penso che utilizzati nel giusto modo, i social media, siano uno strumento potentissimo per portare i nostri racconti ad un pubblico più ampio.
Il periodo che stiamo vivendo mi ha costretto molto ad utilizzare quello che la tecnologia ci ha messo a disposizione per stare vicino ai nostri contatti, tanto che ho addirittura creato una mostra fotografica virtuale con 15 foto raccontate dalla voce di memorie orali che hanno lavorato nei manicomi che ho fotografato.
Chi sono i tuoi fotografi preferiti fra i grandi maestri?
Ti posso dire che i fotografi che più di tutti mi hanno ispirato sono: Annie Leibovitz per il suo splendido approccio alla fotografia e il nostro Gianni Berengo Gardin, che ho avuto anche il piacere di intervistare di persona per il suo lavoro di narrazione dei manicomi, Morire di Classe. Ho avuto la fortuna di fotografare insieme a Gianni Berengo Gardin nel manicomio di Voghera nel 2015, esperienza straordinaria.
Quale macchina fotografica usi?
Domanda complessa perché il mio lavoro sui manicomi è stato fatto con strumenti diversi: ho iniziato con una Nikon Coolpix 8800, poi sono passato a una Pentax K-r e infine ad una Panasonic Lumix lx100, accompagnata da una Pentax ME Super a pellicola senza considerare che faccio un largo uso di cellulare (prima Asus e adesso Iphone).
Ho sempre visto la macchina fotografica come un semplice strumento narrativo che deve essere coerente con la storia che scegliamo di raccontare: anche con un cellulare di vecchissima generazione possiamo raccontare una storia e regalare emozioni.
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